L’inquinamento atmosferico rende le persone più vulnerabili alle infezioni respiratorie; il cambiamento climatico avvicina le persone agli animali che possono diffondere malattie e medici e ricercatori stanno ottenendo un’immagine sempre più accurata, e allo stesso tempo complessa, dei molti modi in cui i cambiamenti climatici danneggiano la salute umana. Con il Coronavirus COVID-19 sono emerse nuove domande sul fatto se i cambiamenti climatici abbiano contribuito allo scoppio della pandemia. Ad esempio, la perdita di habitat, causata in parte dai cambiamenti climatici, ha reso più facile la diffusione dei patogeni tra la fauna selvatica e il passaggio dai virus all’uomo? L’inquinamento atmosferico, causato soprattutto dai combustibili fossili, rende alcune persone più vulnerabili e predisposte ad ammalarsi?
Domande alle quali ha cercato di rispondere lo studio “Sustainable development must account for pandemic risk”, pubblicato su PNAS da un team internazionale di scienziati guidato da Moreno Di Marco del Dipartimento di biologia e bioteconologie Charles Darwin dell’università la Sapienza di Roma e del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) che mette in relazione il fenomeno della diffusione delle malattie infettive con l’azione dell’uomo sulla natura.
Alla Sapienza spiegano che «L’attuale epidemia di Covid-19, originata nella provincia cinese di Hubei e causata da un coronavirus simile a quello della Sars, sta tenendo ancora una volta il mondo sotto scacco. Questa non è che l’ultima di una serie di pandemie che hanno terrorizzato paesi di ogni parte del mondo negli ultimi anni: Ebola, Sars, Zika, MERS, H1N1, solo per citarne alcune. Tutte queste pandemie hanno una cosa in comune: sono di origine zoonotica, sono trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici».
Ma è possibile prevenire questi fenomeni? I ricercatori ricordano che «I recenti focolai di malattie infettive, come il Covid-19, sono stati associati alle alte densità di popolazione umana, ai livelli insostenibili di caccia e di traffico di animali selvatici, alla perdita di habitat naturali (soprattutto foreste) che aumenta il rischio di contatto tra uomo e animali selvatici e all’intensificazione degli allevamenti di bestiame (specie in aree ricche di biodiversità)».
Il contributo pubblicato su PNAS dal team di Di Marco evidenzia che «Il rischio di insorgenza di pandemie non dipende di per sé dalla presenza di aree naturali o di animali selvatici, ma piuttosto dal modo in cui le attività antropiche influiscono su queste aree e queste specie» de i ricercatori sostengono che «Il rischio di insorgenza di malattie infettive rappresenta un punto cieco (blind spot) nei piani di sviluppo sostenibile, cui non vengono dedicate sufficienti misure di prevenzione. Secondo gli studiosi è necessario riconoscere che esistono dei compromessi tra obiettivi di sviluppo socio-economico (come la produzione di cibo e di energia), l’impatto che questi hanno sull’ambiente e sulla biodiversità e i rischi che tali cambiamenti comportano in termini di insorgenza di pandemie».
Di Marco sottolinea che «L’interazione tra cambiamento ambientale e rischio di pandemie non ha ricevuto sufficiente attenzione. Auspichiamo che tale aspetto diventi una parte integrante e prioritaria dei piani di sviluppo sostenibile, affinché sia possibile prevenire, piuttosto che reagire a potenziali conseguenze catastrofiche per l’umanità».
E’ più o meno quanto pensa anche Aaron Bernstein, direttore ad interim del Center for climate, health and the global environment della T.H. Chan School of public health (Harvard C-CHANGE) dell’università di Harvard che è stato intervistato da Neela Banerjee di InsideClimate News su come i cambiamenti climatici possano aver avuto un ruolo nell’emergere di COVID-19sugli eventuali parallelismi tra il “negazionismo del virus” e il negazionismo climatico – incarnato in questi giorni ai più alti livelli da Donald Trump – e di come prepararsi all’inevitabile prossima pandemia.
Per quanto riguarda la possibile connessione tra COVID-19 e il cambiamento climatico Bernstein ha risposto: «Penso che i legami più forti che vedo siano in realtà legati, prima di tutto, all’inquinamento atmosferico e ai combustibili fossili come fonte di inquinamento atmosferico, e i combustibili fossili, ovviamente, sono la principale causa del cambiamento climatico. Le altre connessioni che vedo sono che il modo in cui pensiamo all’ambiente per quanto riguarda la salute ci ha messo in difficoltà con l’emergere di infezioni come COVID e i cambiamenti climatici».
Lo scienziato, considerato uno dei maggiori esperti mondiali degli effetti dell’inquinamento sui bambini, d invita a guardare come, con i cambiamenti climatici, abbiamo trasformato la natura della Terra: «Abbiamo sostanzialmente cambiato la composizione dell’atmosfera e, per questo, non dovremmo essere sorpresi che ciò influisca sulla nostra salute. Come specie, siamo cresciuti in collaborazione con il pianeta e la vita con la quale viviamo. Quindi, quando cambiamo le regole del gioco, non dovremmo aspettarci che questo non influisca sulla nostra salute, nel bene e nel male. Questo è vero per il clima. E lo stesso principio vale per la comparsa di infezioni. Se osserviamo le malattie infettive emergenti che sono passate nelle persone dagli animali o altre fonti negli ultimi decenni, la stragrande maggioranza di queste proviene da animali. E la maggior parte di questi proviene da animali selvatici. Abbiamo trasformato la vita sulla Terra. Stiamo avendo un enorme effetto su come funzionano le relazioni tra tutta la vita sulla Terra e anche con noi stessi. Non dovremmo essere sorpresi che compaiano queste malattie emergenti compaiano. Il principio è che stiamo davvero cambiando il modo in cui ci relazioniamo con altre specie sulla Terra e questo è importante per il rischio di infezioni».
La Banerjee ha chiesto a Bernstein in che modo la perdita di habitat per le specie e i cambiamenti climatici svolgono un ruolo nel ridurre la distanza tra fauna selvatica e persone e lo scienziato ha risposto: «Per essere chiari, con il COVID non sappiamo, quale ruolo abbiano svolto gli effetti sul clima che stiamo già vedendo nelle specie di tutto nel rischio che questa malattia emergesse. Sappiamo chiaramente che ha avuto a che fare con un mercato nel quale si mischiavano animali, pipistrelli e, potenzialmente, pangolini. Ma non è chiaro, ad esempio, se i modelli di migrazione dei pipistrelli, che sono stati influenzati dal clima, abbiano avuto un ruolo. Ma abbiamo altri esempi. Assistiamo a questa straordinaria migrazione verso i poli. Stiamo vedendo qualsiasi tipo di forme di vita scappare dal caldo e questo ha portato alla diffusione di agenti patogeni, perché gli animali portatori di agenti patogeni sono venuti in contatto con altri animali che non erano portatori di quei patogeni e c’è stata trasmissione. I vincoli per la migrazione degli animali causati dalla perdita di habitat possono costringere gli animali ad avvicinarsi maggiormente. La linea base è che se si vuole prevenire la diffusione di agenti patogeni, l’emergere di agenti patogeni, come vediamo non solo con le persone e il COVID, ma anche con la fauna selvatica, non dovremmo trasformare il clima. Perché questo costringe le specie a venire a contatto con altre specie che potrebbero essere vulnerabili alle infezioni. Ci sono molte forze in gioco e la perdita dell’habitat contribuisce in modo determinante».
E l’inquinamento atmosferico, particolarmente elevato negli hotspot del Coronavirus, Wuhan, la Pianura Padana e la Corea del sud, il come influenza la vulnerabilità umana al CoVID-19? Su questo Bernstein ha voluto essere molto chiaro sul fatto che il problema non sono solo i combustibili fossili, ma che dipende dal «Bruciare qualsiasi cosa, quindi potrebbe essere l’inquinamento indoor delle stufe. Potrebbe essere bruciare i rifiuti agricoli. Potrebbe essere bruciare legna. Potrebbe essere un incendio. L’inquinamento atmosferico è fortemente associato al rischio delle persone di contrarre la polmonite e di ammalarsi Non abbiamo davvero molto in termini di prove per dimostrare quella connessione con le epidemie di COVID. Dato ciò che sappiamo ora, sarebbe molto sorprendente scoprire che l’inquinamento atmosferico non ha influenzato il rischio che le persone si ammalino o che prendano questa malattia. Abbiamo molte ricerche che dimostrano che l’inquinamento atmosferico, in particolare l’inquinamento atmosferico da particolato, aumenta il rischio di ammalarsi per agenti patogeni batterici e virali che causano la polmonite e che le persone che sono esposte a un maggiore inquinamento atmosferico si ammalano quando vengono a contatto di quei tipi di agenti patogeni».
La Banerjee. Riferendosi soprattutto alla situazione statunitense, dice di sentire nella minimizzazione della gravità del virus e della sua diffusione l’eco del negazionismo climatico e ha domandato a Bernstein se ha la stessa impressione. «E’ difficile da sapere – ha risposto lo scienziato – Ho sicuramente sentito dei governanti minimizzare i rischi di infezione di fronte a persone che, direi, hanno maggiori credenziali scientifiche e che stanno sollevando maggiori preoccupazioni. E’ difficile sapere da dove provenga questa mancanza di preoccupazione. Ma è certamente vero che fare a meno della scienza nel discutere o nel cercare di capire cosa sta succedendo è davvero inutile. Abbiamo scienziati che hanno passato la vita cercando di capire cosa succede quando si hanno popolazioni esposte a malattie come il COVID e mi sembrerebbe che noi. come società, trarremmo grandi benefici dall’ascoltarle piuttosto che dall’ascoltare i politici». E, in polemica con i Tweet di Trump Bernstein ha aggiunto: «Incoraggerei chiunque a raccogliere i Twitter feeds degli scienziati che passato decenni a fare ricerca su questi problemi e vedere cosa stanno dicendo. Chiedetevi: se foste davvero malati, andreste da un politico o andreste da un dottore?»
Poi la Banerjee e Bernstein hanno affrontato lo spinoso tema della sanità pubblica e lo scienziato non ha usato mezze misure: «Penso che a un livello molto alto, la quantità di finanziamenti che è stata investita nelle infrastrutture della sanità pubblica negli Stati Uniti negli ultimi anni sia stata selvaggiamente sproporzionata rispetto alla necessità. E quindi non dovremmo aspettarci di essere pronti ad affrontare problemi come questo se in realtà non sosteniamo finanziariamente la salute pubblica. Siamo in grado di recuperare il ritardo perché abbiamo sottofinanziato l’infrastruttura della sanità pubblica che sarebbe necessaria per rispondere adeguatamente a tutto questo».
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