I medicinali che assumiamo normalmente passano dal nostro corpo e finiscono nell’ambiente, ma nessuno sa ancora esattamente quanto questo sia rischioso per la fauna selvatica e la salute umana. Come spiega Horizon – the EU Research & Innovation Magazine negli ultimi 20 anni è cresciuta la preoccupazione per la quantità di farmaci che, attraverso le acque reflue, che vengono scaricati nell’ambientedai sistemi fognari. La maggior parte proviene dalle urine e dalle feci di pazienti che hanno assunto farmaci e, anche dopo che sono stati “filtrati” dai nostri corpi e dai depuratori, questi composti vengono trovati in fiumi, laghi e nel suolo. Già dallo studio “Fate and distribution of pharmaceuticals in wastewater and sewage sludge of the conventional activated sludge (CAS) and advanced membrane bioreactor (MBR) treatment”, pubblicato su Water Research nel 2009, era emerso che negli scarichi fognari e nei vicini corsi ci sono prodotti farmaceutici come quelli per il colesterolo, beta-bloccanti, antiepilettici, antinfiammatori e antibiotici insieme a sostanze illegali.
Il coordinatore del progetto PREMIER, Ad Ragas della Radboud Universiteit olandese, sottolinea che «Molte persone pensano che quella degli impianti di depurazione sia acqua pulita, ma questi impianti sono stati costruiti per rimuovere azoto e fosfati, non prodotti farmaceutici. Questi prodotti farmaceutici finiscono nell’ambiente, insieme ad altri microinquinanti». E lo staff di PREMIER ricorda che «Sono quasi 2 000 i principi attivi farmaceutici in uso eppure si sa poco dei rischi che rappresentano per l’ambiente. Per questo, urgono metodi basati sulla scienza in grado di rilevare le minacce ambientali nelle prime fasi del processo di sviluppo dei farmaci».
Lo studio “Pharmaceuticals in the environment: scientific evidence of risks and its regulation”, pubblicato nel 2014 su Philosophical Transaction of the Royal Society B da Anette Küster e Nicole Adler ha identificato più di 600 sostanze farmaceutiche negli ambienti acquatici di tutto il mondo, altre si fanno strada negli ecosistemi terrestri e alcuni di questi composti sono noti per causare effetti indesiderati negli organismi viventi.
Uno degli esempi più tristemente noti è quello degli avvoltoi in India dove, fino alla fine degli anni decine di milioni di questi grandi uccelli si cibavano di carcasse di mucche e di altri animali, ma negli anni ’90 il numero di avvoltoi cominciò a diminuire rapidamente e drasticamente, fino a ridurre la loro popolazione del 99%. Le cause rimasero misteriose fino a che gli scienziati non capirono che gli avvoltoi indiani erano vittime del diclofenac, un farmaco antinfiammatorio economico che veniva dato alle mucche ma causava insufficienza renale e morte negli avvoltoi.
Ragas ricorda che «Questo evento ha innescato molte discussioni sull’impatto dei farmaci sulla fauna selvatica e sull’ambiente». Nel 2006 l’India vietò l’uso veterinario del diclofenac, ma 15 anni dopo, la preoccupazione per i farmaci e i loro sottoprodotti che penetrano nell’ambiente è sempre più forte perché ogni anno aumenta l’utilizzo di farmaci sia per uso umano che animale.
Nel 2013, il Parlamento e il Consiglio dell’Unione europea hanno approvato un elenco di farmaci, inclusi alcuni antibiotici, che dovrebbero essere attentamente monitorate nei corpi idrici dell’Ue. Horizon fa notare che «Questo è stato il primo documento a includere sostanze di indiscusso valore medicinale che rappresentano una potenziale minaccia per gli ecosistemi fragili».
Una fonte importante di questi principi farmaceutici attivi sono gli ospedali e studi medici come “Occurrence, partition and removal of pharmaceuticals in sewage water and sludge during wastewater treatment”, pubblicato nel 2011 su Water Research, hanno hanno scoperto che molte delle sostanze chimiche provenienti dagli ospedali non vengono del tutto rimosse dagli impianti di depurazione e che tra queste ci sono i mezzi di contrasto iodati (ICM), utilizzati per la scansione diagnostica. Gli i ICM non si degradano nel corpo (oltre il 95% non viene metabolizzato) e così vengono scaricati e nel sistema fognario. I ricercatori ritengono che diano un importante contributo al carico di sostanze chimiche persistenti nelle acque reflue. I sottoprodotti dell’ICM sono stati trovati – spesso in concentrazioni elevate – nei fiumi, nei laghi, nelle acque sotterranee, persino nell’acqua potabile e nche nel suolo, rappresentando un potenziale rischio sia per l’uomo che per la fauna selvatica. Gli alogeni organici sono uno dei sottoprodotti degli agenti di contrasto. Queste sostanze chimiche possono avere effetti tossici nel suolo e nell’acqua se si accumulano in alte concentrazioni.
Alberto Guadagnini del Dipartimento di ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, ha detto a Horizon: «Non sappiamo ancora quanto sia grande il rischio che queste sostanze si accumulino in alte concentrazioni nel sistema delle acque sotterranee».
Horizon evidenzia che «I dati sulla prevalenza degli ICM – e su cosa si può fare per rimuoverli in sicurezza – sono frammentari. Con l’invecchiamento della popolazione, si prevede che il numero di comorbidità croniche e complesse aumenterà, quindi è probabile che il numero di imaging test effettuati in tutto il mondo aumenti». In tutto il mondo ci sarebbero più di 45.000 scanner CT clinici operativi e nel solo ospedale San Raffaele di Milano ogni anno vengono eseguiti 30.000 esami di questo tipo.
Guadagnini è a capo del progetto quadriennale REMEDI che spera di colmare alcune delle lacune di conoscenza e studia nuove tecniche per intrappolare e rimuovere gli agenti di contrasto dall’acqua e dal suolo. Ma Guadagnini avverte che «Rimuoverli è solo una parte della sfida: vogliamo anche riciclarli. Lo iodio e il bario (utilizzati nei mezzi di contrasto) sono composti preziosi. Sarebbe molto meglio che venissero riutilizzati dall’industria piuttosto che accumularsi nell’ambiente».
Il team di FREMEDI si sta concentrando sugli ossidi di ferro, che hanno la capacità di legarsi agli agenti di contrasto. Ma gli ossidi di ferro non possono essere aggiunti direttamente a laghi e fiumi per agire come trappole per gli ICM perché umentano l’acidità dell’acqua. I ricercatori cercheranno di utilizzare questi composti per intercettare gli ICM prima che raggiungano i corpi idrici naturali: «Un’idea chiave è intrappolare gli agenti dei mezzi di contrasto ingegnerizzando un materiale poroso che imiti il sedimento sul fondo del fiume, che fa parte del sistema che filtra l’acqua del fiume per renderla potabile. Una matrice solida così sarà progettata per intrappolare gli agenti dei mezzi di contrasto. Una volta che sono intrappolati, possiamo recuperarli ed esplorare il potenziale di riutilizzo di questi agenti di contrasto».
Ma, anche con questi mezzi, una percentuale degli ICM finirà ancora nei corsi d’acqua e quindi nelle acque sotterranee. A REMEDI vogliono quantificare la gravità del problema che questa inevitabile lisciviazione porrà ai corpi idrici e una branca del progetto sta tentando di valutare e quantificare i rischi associati.
Anche se REMEDI è ancora agli inizi, Guadagnini è incoraggiato dal crescente dibattito pubblico sugli inquinanti farmaceutici: «Le persone stanno iniziando a vedere questo come un problema che deve essere affrontato, Sono preoccupate perché la conoscenza dei rischi ambientali è ancora incompleta e la questione sta prendendo slancio anche nell’industria, perché il recupero di alcuni di questi composti e il loro utilizzo di nuovo hanno implicazioni economiche».
Horizon fa notare che «Dal 2006 , un nuovo medicinale ottiene l’approvazione nell’UE solo se viene fornito con una valutazione del rischio ambientale, un fascicolo che quantifica il potenziale rischio ambientale di un composto. Questi possono costituire un importante impulso per gli ospedali per determinare il modo migliore per mitigare i rischi dei medicinali e di altri composti che somministrano ai pazienti. Si potrebbe decidere, ad esempio, di raccogliere l’urina di un paziente anziché gettarla nel water».
Ma queste valutazioni del rischio sono costose da creare (circa 500.000 euro l’una) e, sebbene questa sia solo una piccola frazione del costo totale per portare un nuovo medicinale sul mercato, si vanno ad aggiungere ai costi complessivi della produzione di nuovi trattamenti. La legislazione è inoltre applicabile solo ai nuovi medicinali. Ragas aggiunge: «Stimiamo che tra 1.000 e 1.800 medicinali fossero già sul mercato prima del 2006. Farmaci come il paracetamolo (dele quale gli europei ne hanno consumato 48.400 tonnellate nel 2016) non hanno mai ve visto valutare sistematicamente il loro impatto ambientale».
L’obiettivo principale di PREMIER è la creazione di fascicoli di valutazione del rischio retrospettivi e i ricercatori del progetto stanno utilizzando modelli informatici per fare previsioni intelligenti ed economiche sia sulla tossicità di un farmaco che sulla probabilità che l’esposizione causi effetti negativi negli ecosistemi acquatici.
Ragas spiega ancora: «Sviluppando procedure intelligenti, vogliamo evitare di dover testare tutti i farmaci. Se conosciamo una molecola e le sue caratteristiche, ad esempio quanto bene si degrada e si dissolve in acqua, possiamo creare modelli per prevedere quanto velocemente scomparirà (dall’ambiente). Grazie ai nostri modelli, speriamo di poter dire: “queste 50 sostanze chimiche sono molto probabilmente le più rischiose”. Potremo quindi eseguire test più costosi su queste sostanze chimiche e trarre conclusioni».
Ragas e il suo team sperano di riuscire ad accertare come un determinato farmaco influenzi le specie in modo diverso. Lo scienziato olandese conclude: «Prendiamo un pesce. Se è noto che un farmaco colpisce le molecole neuronali nel corpo umano, utilizzando una banca dati genetica, esamineremo se questo target è presente anche nei pesci. Se il gene che codifica per la molecola target negli esseri umani è presente anche nei pesci, sapremo che i pesci sono probabilmente sensibili alla stessa sostanza chimica. Spero che queste informazioni possano rendere più facile la valutazione dei rischi che i farmaci vecchi e nuovi comportano per l’ambiente, in modo da poter prendere provvedimenti per controllare quelli più dannosi. Dobbiamo trovare un equilibrio tra i benefici per la salute dei prodotti farmaceutici per gli esseri umani e le conseguenze per l’ambiente. La mia più grande speranza è che possiamo spingere l’intera area dell’utilizzo dello sviluppo di farmaci in una direzione nella quale le persone possano beneficiare degli effetti positivi sulla salute dei farmaci senza causare alcun danno ambientale».