I vaccini a mRNA che salvano dalla covid milioni di vite, e che continuano a rimanere una delle più prodigiose scoperte della medicina moderna non sono, come sostengono alcuni scettici, arrivati “troppo in fretta”, grazie a qualche poco trasparente scorciatoia delle case farmaceutiche. Sono invece il risultato di decenni di studi teorici a lungo snobbati, di ricerche che sembravano finite su binari morti e che hanno rivelato la loro utilità quando più ne abbiamo avuto bisogno, unendosi come puntini di un disegno coerente, emerso da un ordine apparentemente casuale.
Quella che segue è la storia di quel lavorio nascosto e lontano dai riflettori: un intreccio di intuizioni, colpi di fulmine scientifici, inversioni di rotta e tentativi disperati di curare passate epidemie che ci permette oggi di avere un’ancora di salvezza dalla CoViD-19. La vicenda di cui leggerete è la migliore dimostrazione dell’importanza della ricerca di base, che si concentra sull’avanzamento puro della conoscenza senza applicazioni immediate. Una strada apparentemente a zigzag di cui si comprende il senso soltanto alla fine, quando chi non conosce i fatti pensa che sia stato “tutto facile”.
TRE STRADE CHE SI UNISCONO. Come scrivono Gina Kolata e Benjamin Mueller sul New York Times, a rendere possibili i vaccini anti-covid a mRNA sono stati i progressi raggiunti in tre diverse aree: la prima, cominciata 60 anni fa e proseguita nei 30 anni successivi, è la scoperta dell’mRNA e di come usare quella stringa di codice genetico per insegnare alle cellule a produrre pezzetti di virus e rafforzare il sistema immunitario; la seconda è aver capito come proteggere quelle fragili molecole dalla degradazione una volta che sono introdotte nel corpo umano.
Il terzo filone, cominciato negli Stati Uniti negli anni ’90, è la ricerca sulla proteina spike del virus dell’HIV, nel tentativo disperato di trovare un vaccino contro l’epidemia di AIDS allora in piena espansione. Come sappiamo, quegli studi non hanno portato a un vaccino contro l’HIV, ma hanno permesso di conoscere meglio la spike del coronavirus SARS-CoV-2. Nel 2020, questi tre “pezzetti” di sapere sono convogliati in vaccini a mRNA efficaci e sicuri, diretti contro la corretta proteina-bersaglio.
I PRIMI CASI DI AIDS. Nel 1982 Barney Graham, medico specializzando del Nashville General Hospital, soccorre un uomo delirante, con lesioni multiple alla pelle e infezioni diffuse a polmoni, fegato e milza: un collasso del sistema immunitario che farebbe pensare a un virus sconosciuto. I sospetti sono fondati. Sono le prime manifestazioni cliniche del virus dell’HIV, che sembra inizialmente colpire i giovani uomini della comunità omosessuale americana, giunti in ospedale pelle e ossa, con polmoniti e linfonodi ingrossati, debolissimi. Inizialmente si pensa che la malattia riguardi soprattutto chi fa uso di eroina, ma è presto chiaro che la sua diffusione non è circoscritta.
IL GIOVANE FAUCI. Nel 1996, quando Bill Clinton convoca lo scienziato Anthony Fauci nello Studio Ovale per essere informato sull’epidemia di AIDS, il virus dell’HIV ha già ucciso 350.000 persone soltanto negli USA e sei milioni nel mondo. Rispetto a 15 anni prima ci sono ora alcuni farmaci per contrastare la malattia, ma il Presidente degli Stati Uniti pone a Fauci la domanda più ovvia per un non addetto ai lavori: perché mai non esiste ancora un vaccino contro l’HIV?
Lo scienziato rilancia chiedendo la creazione di un centro multidisciplinare dedicato. Si gettano così le basi per il Vaccine Research Center, che aprirà le porte nel 2000 presso il National Institutes of Health’s campus di Bethesda, nel Maryland. Si inizia con un budget di 43,9 milioni di dollari (attuali) e uno staff di 56 scienziati, tra cui proprio Barney Graham.
Da allora oltre 85 candidati vaccini sono stati testati in quel centro e in altri sparsi su tutto il territorio USA. Nessuno ha funzionato, soprattutto perché il virus dell’HIV ha una capacità incredibile di mutare aspetto (varia in un giorno con la stessa rapidità con cui il virus dell’influenza cambia in un anno) e sfuggire alle difese messe in campo dal sistema immunitario.
UNA FAMOSA PROTEINA AD UNCINO. I ricercatori del centro vaccinale decidono allora per un approccio più teorico: mappare l’intera superficie del virus dell’HIV, in particolare la struttura atomica delle proteine che usa per invadere le cellule, le spike. Nell’HIV e non solo, queste proteine uncinate cambiano costantemente forma: ne hanno una prima di invadere le cellule e una diversa una volta agganciate. Capire quale parte della spike sia più vulnerabile agli anticorpi, e soprattutto quale forma della spike riprodurre con un vaccino, è la sfida contro cui si schiantano i tentativi del team di scienziati. Tra questi c’è anche il 27enne Jason McLellan, che con la tecnica della cristallografia ai raggi X studia la struttura 3D delle proteine.
Dopo sei mesi di ricerche sull’HIV McLellan chiede al suo supervisore di cambiare virus e concentrarsi su qualcosa di più facilmente approcciabile. Conosce così Barney Graham, che qualche scrivania più in là sta studiando, oltre all’HIV, anche il virus respiratorio sinciziale (VRS), che causa affezioni dei polmoni e delle vie aeree. Analizzando la struttura della proteina che il VRS usa per fondersi alle cellule i due aprono la strada a possibili vaccini ora in sperimentazione. Ancora non lo sanno, ma la loro collaborazione sarà alla base anche di un altro vaccino: quello contro la CoViD-19.
MESSAGGERO A VITA BREVE. Per la scoperta dell’RNA messaggero (mRNA) bisogna fare un salto indietro nel tempo fino al 15 aprile 1960, quando un gruppo di scienziati del King’s College a Cambridge (Regno Unito), tra cui i futuri Premi Nobel Francis Crick e Sydney Brenner, individua finalmente la molecola che fa da tramite tra il DNA, la stringa di istruzioni per produrre proteine nel cuore della cellula, e le fabbriche di proteine vere e proprie, altre strutture cellulari dette ribosomi. La molecola messaggera, l’mRNA, porta copie di segmenti trascritti di DNA ai ribosomi, dove queste istruzioni vengono tradotte.
Dopo gli iniziali entusiasmi in pochi sanno però come sfruttare la scoperta. Isolare l’mRNA dalle cellule è infatti impossibile senza che si degradi completamente. Nel 1984 il biologo di Harvard Doug Melton scopre come riprodurre l’mRNA in laboratorio, ma il problema è sempre la sua delicatezza. L’attenzione nei confronti di questo tema cala progressivamente, fino all’incontro tra due scienziati controcorrente.
UN LASCIAPASSARE ESSENZIALE. Dato che le cellule del corpo umano utilizzano continuamente mRNA per trascrivere le istruzioni genetiche e produrre proteine essenziali, perché non ottenere versioni sintetiche di mRNA che ci aiutino a contrastare malattie? Negli anni ’90 la biochimica ungherese Katlin Karikò (oggi vicepresidente di BioNTech RNA Pharmaceuticals) inizia a lavorare a questa possibilità, ma finisce per scontrarsi con la mancanza di finanziamenti e con un importante ostacolo scientifico: produrre un mRNA sintetico che non venga immediatamente rigettato come estraneo, il trattamento che l’organismo riserva a istruzioni genetiche che ritiene scorrette.
La svolta dopo anni di studi e tentativi arriva con la collaborazione con il collega dell’Università della Pennsylvania Drew Weissmann, impegnato a cercare un vaccino contro l’HIV. Nel 2005, i due scoprono che modificando una “lettera” dell’mRNA (uno dei mattoncini che compongono la sua molecola, i nucleosidi) si inibisce la reazione immunitaria problematica. L’mRNA riesce a sfuggire ai meccanismi di controllo e ad arrivare alle cellule.
IL SOGNO DI UN VACCINO A MRNA. Fino ad allora i vaccini in commercio hanno sfruttato virus modificati o frammenti di essi per allenare il sistema immunitario ad attaccare i patogeni invasori. Un vaccino a mRNA recherebbe invece le istruzioni per istruire il corpo a produrre le proprie proteine virali, un approccio che imita l’infezione in modo più preciso e dunque dovrebbe generare una migliore riposta immunitaria. L’idea che una molecola fragile come l’mRNA possa riuscirci sembra comunque poco probabile. Il paper che descrive il meccanismo di soppressione che garantisce l’accesso dell’mRNA alle cellule viene rigettato da riviste del calibro di Science e Nature e viene pubblicato sulla meno prestigiosa Immunity.
BUSTA PROTETTIVA. Anche se ora l’mRNA è protetto dal rigetto cellulare, occorre riuscire a consegnarlo integro alle cellule stesse. Negli anni ’90, un team di biochimici della Inex, un’azienda di Vancouver fondata da un certo Pieter Cullis, persegue questo obiettivo lavorando con membrane lipidiche delle dimensioni di un centesimo di una cellula. Non è facile: le cellule umane hanno un sistema di difesa che impedisce a qualunque elemento diverso dal loro cibo di accedere. Inoltre alcuni lipidi hanno cariche elettriche che distruggono la membrana cellulare subito dopo il contatto.
Cullis e colleghi scoprono però come manipolare la carica elettrica di questi involucri lipidici in modo che la loro tossicità svanisca una volta entrati nel sangue. Una compagnia spinoff della Inex, la Protiva, riesce in seguito a cambiare la composizione delle bolle di grasso in modo che disperdano meno del loro prezioso carico e migliorando il processo produttivo. La Karikó prova due volte a mettersi in contatto con la Protiva per una collaborazione, invano. Sarà invece Pieter Cullis, che nel frattempo si è messo ad occuparsi di temi molto diversi, a lavorare con i produttori di vaccini a mRNA.
UNA FAMIGLIA DI VIRUS IGNORATA DAI PIÙ. Abbiamo ora un mRNA in grado di istruire il sistema immunitario e un involucro di grasso che lo tiene al sicuro. Manca il codice preciso da fornire alle cellule perché inizino a produrre la loro versione della spike, e scatenare la risposta immunitaria. Per queste istruzioni genetiche dobbiamo tornare a McLellan e Graham, che abbiamo lasciato a lavorare su HIV e virus sinciziale al Vaccine Research Center. Nel 2013 Graham apre il proprio laboratorio e decide di concentrarsi su una classe di virus che la maggior parte delle volte provoca soltanto raffreddori – i coronavirus. Il virus MERS-CoV ha iniziato a diffondersi in Medio Oriente, l’epidemia di SARS è alle spalle da 11 anni.
Il virus della MERS ha qualcosa in comune con l’HIV: la proteina spike, che nessuno è ancora riuscito a prendere di mira con un vaccino. È anche talmente pericoloso e instabile che sembra impossibile riprodurlo o isolarlo in laboratorio, per non parlare di farlo arrivare da altri Paesi.
Quando un ricercatore del laboratorio di Graham, Hadi Yassine, ritorna ammalato dopo un pellegrinaggio a La Mecca, Graham sospetta possa trattarsi di MERS. Ma le analisi rivelano soltanto un’infezione data da un banale coronavirus del raffreddore, HKU1. Graham decide di studiare lo stesso quel virus ordinario: è pur sempre un coronavirus, e come il più temibile parente MERS-CoV è dotato di spike, anche se la sua è più stabile. Dopo qualche anno di ricerche su questo virus comune vengono pubblicate su Nature le prime immagini della spike di un coronavirus umano, così come appare la proteina un attimo prima di attaccare le cellule. Ci sono i presupposti per creare un vaccino contro il virus della MERS.
TANTA FATICA PER NULLA? Il problema è che la spike creata in laboratorio, come quella in natura, continua a cambiare aspetto: per poterla usare per un vaccino occorre bloccarla nella conformazione che assume quando attacca le cellule. Ci pensa Nianshuang Wang, un postdoc del laboratorio di Graham che viene dalla Cina, ha nozioni sugli spillover di virus e ha già contribuito a importanti nozioni sul virus MERS-CoV.
Dopo alcuni tentativi Wang e Graham trovano un punto particolarmente lasso della spike in cui aggiungere due mutazioni dei blocchi di base (gli amminoacidi) per “irrigidirla”. Questo intervento, che blocca la proteina nella sua configurazione iniziale, ha richiesto però tre anni di lavoro e a quel punto l’epidemia di MERS è alle spalle. I coronavirus non sono più “interessanti”, lo studio viene pubblicato su una rivista poco nota e Wang ha l’impressione di aver perso il treno più importante della sua carriera.
AL MOMENTO GIUSTO. Invece questa piccola, grande scoperta sarà alla base di tutte le ricette dei vaccini anti-covid attualmente usati. All’alba del 31 dicembre 2019 il Professor Graham accende il pc e legge di una misteriosa polmonite iniziata a circolare a Wuhan, in Cina. Mette in allerta il suo laboratorio e resta in attesa. Una settimana più tardi, alla notizia di un coronavirus come più probabile causa della malattia, telefona al suo vecchio collaboratore McLellan, che da anni si occupa di coronavirus, e gli dice lapidario: «È il momento di risalire in sella».
Pochi giorni dopo alcuni ricercatori cinesi pubblicano la sequenza genetica del virus: forti dell’esperienza maturata sulla MERS, McLellan e colleghi individuano in breve la sezione che riguarda le spike e ottengono la stringa di codice della proteina-bersaglio, nella quale incorporano la tecnica per “bloccarla” sul posto studiata da Wang sul virus del raffreddore.
MIRATE… QUI! Il 15 febbraio 2020 Graham e McLellan pubblicano un articolo con la struttura della spike su un sito liberamente accessibile di lavori scientifici (quel paper sarà in seguito pubblicato su Science). Sapendo con precisione dove inserire le mutazioni utili a stabilizzare la proteina, Pfizer-BioNTech e Moderna riescono a creare vaccini anti-covid “sartoriali” con il 95% di efficacia. Per renderli accettabili alle cellule utilizzano l’alterazione chimica scoperta 15 anni prima da Weissman e Karikó, e per proteggerli l’involucro lipidico messo a punto dai ricercatori canadesi.
Se i trial clinici possono iniziare subito, in circa 100 siti soltanto negli Stati Uniti, è anche grazie agli ingenti investimenti messi in campo negli anni passati per la ricerca contro l’HIV. A novembre 2020 il mondo ha il suo primo vaccino estremamente efficace contro la covid. Evidentemente non il frutto dell’improvvisazione.