Lo studio “Human behaviour can trigger large carnivore attacks in developed countries” Scientific Reports, un team internazionale di ricercatori che comprende anche gli italiani Francesco Pinchera e Mario Pellegrini del Centro Italiano di Studi e di Documentazione sugli Abeti Mediterranei (CISDAM) di Rosello (CH), e guidato da Vincenzo Panteriani, che lavora per l’Estación Biológica de Doñana e per l’università di Oviedo, parte dalla escalation di attacchi deli animali selvatici all’uomo che i media e la letteratura scientifica stanno segnalando in Nord America e in Europa e sottolinea subito «Anche se rari rispetto ai decessi umani provocati da altri animali selvatici, i media spesso sopravvalutano gli attacchi dei grandi carnivori agli esseri umani, provocando un aumento della paura e atteggiamenti negativi nei confronti della conservazione e della convivenza con queste specie»
I ricercatori dicono che «Dal 1950, sei specie di grandi carnivori (orso bruno, orso nero, orso polare, lupo e coyote) in Nord America e una specie in Scandinavia e Spagna (orso bruno) sono state responsabili di 700 attacchi a persone. In questo stesso periodo, il numero di persone il numero di persone che praticano attività all’aria aperta in aree frequentate dai grandi carnivori è aumentata, un fenomeno che risulta significativamente collegato al numero di attacchi». Il numero degli attacchi di grandi carnivori alle persone è aumentato significativamente, ma con tendenze contrastanti secondo le specie. In Nord America, il coyote (31,0% del numero totale di attacchi) e il puma (25,7%) sono responsabili della maggior parte degli attacchi, seguiti dagli orsi bruni (13,2%), g dagli orsi neri (12,2%) e dai lupi (6,7%) . In Europa è stato osservato un aumento simile per gli orsi bruni (9,3%) così come nell’Artico per orsi polari (1,9%). Anche l’età delle vittime è aumentata in modo significativo.
I modelli degli attacchi riportati dallo studio potrebbero anche riflettere l’aumento del numero di individui “audaci” nelle popolazioni più numerose di grandi carnivori, un tratto è spesso legato all’aggressività, che potrebbe portare a risposte più aggressive quando i grandi carnivori incontrano gli esseri umani. I ricercatori ipotizzano che «La mortalità intensa e prolungata causata dall’uomo impone pressioni selettive sulle popolazioni target (rimozione selettiva di certi fenotipi) e potrebbe portare a una rapida cambiamento evolutivo. La selezione naturale mantiene un mix di fenotipi comportamentali nelle popolazioni». Insomma la normalità produce individui più “timidi”, mentre le continue pressioni antropiche su fauna e habitat favoriscono gli individui più aggressivi che preferiscono il rischio e la novità.
Ma gli stessi ricercatori fanno notare che la persecuzione alla quale abbiamo sottoposto e vorremmo ancora sottoporre i grandi carnivori, dovrebbe aver comportato la rimozione di gran parte degli individui audaci, meno prudenti, e «Di conseguenza, gli individui timidi potrebbero essere stati sovra rappresentati nelle popolazioni residue di grandi carnivori. Inoltre, gli individui possono diventare più vigili ed evitare attivamente il contatto con gli esseri umani durante i periodi di intensa persecuzione».
Lo studio del team di Panteriani dimostra che «Il 50% di questi attacchi è dovuto a imprudenze umane e che la maggioranza delle persone che praticano attività ludiche in ambienti naturali hanno carenti conoscenze di base su come evitare le situazioni più a rischio quando condividono lo spazio con i grandi carnivori e su come comportarsi nel caso di un incontro».
I ricercatori rivelano quali sono i comportamenti umani a rischio più comuni che si verificano al momento di un attacco di grandi carnivori: i genitori che lasciano un bambino incustodito; cani non tenuti al guinzaglio; ricerca di un grande carnivoro ferito durante la caccia; attività sportiva all’aria aperta al crepuscolo o di notte; avvicinarsi ad una femmina con cuccioli. Se si evitassero queste imprudenze la convivenza con i grandi carnivori nelle aree che frequentano migliorerebbe subito. «Ad esempio – si legge nello studio – il comportamento umano registrato più di frequente è stato quello dei bambini lasciati incustoditi (47,3%), che sono stati spesso attaccati dai puma (50,8% degli attacchi), coyote (27,9%) e gli orsi neri (13,2%)».
Ma il 50% degli attacchi non sembrano legati ad un comportamento umano migliorabile: chi vive in zone dove ci sono grandi carnivori può imbattersi accidentalmente in una madre con cuccioli o passare vicino a una carcassa sorvegliata da un orso, oppure incontrare un individuo attratto dal cibo che gli escursionisti si portano dietro.
Ma i ricercatori ricordano che «Se gli attacchi di grandi carnivori sono aumentati, rimangono eventi estremamente rari , mentre altri animali selvatici, come vespe, zanzare, ragni, lumache, serpenti e ungulati, e i cani domestici, fanno molte più vittime umane.
Lo studio conclude che i fucili e la caccia a lupi ed orsi servono a poco e ancor meno fare appello alle paure dell’opinione pubblica, invece, «Analizzare e comprendere le cause che determinano questi attacchi è uno dei migliori strumenti per ridurre il numero di attacchi agli esseri umani da parte dei grandi carnivori».
Purtroppo accade il contrario i – rari – attacchi dei grandi carnivori agli esseri umani vengono presentati con titoli sensazionalistici e immagini terribili, «facendo appello più alle emozioni del pubblico che alla logica – si legge nello studio – E’ un fenomeno ben studiato che porta gli esseri umani a sovrastimare il rischio di eventi rari che evocano emozioni forti. Sopravvalutare il rischio degli attacchi dei grandi carnivori agli esseri umani aumenta in modo irrazionale la paura umana e innesca un circolo vizioso che può influenzare lo stato di conservazione sempre più positivo di molti di queste specie». Come si sta facendo irresponsabilmente in Italia riguardo ai lupi.
Tratto da
del 05 Febbraio 2016