ADATTATI. ANCHE GLI ANIMALI SELVATICI SI ABITUANO AGLI UMANI

Il tagging della fauna selvatica fornisce informazioni importanti su movimenti, fisiologia e comportamento degli animali in ecosistemi in continuo cambiamento a livello globale. Tuttavia, lo stress causato dalla cattura, dalla manipolazione e dal tagging può avere un effetto sulla locomozione e sull’attività degli animali e quindi anche sulla validità dei dati raccolti.  

Il team di oltre 100 ricercatori guidato da Jonas Stiegler e Niels Blaum dell’ Universität Potsdam e che ha visto anche la partecipazione degli italiani Marco Apollonio, Francesca Brivio e Rudy Brogi (università di Sassari), Bruno Bassano (Parco Nazionale del Gran Paradiso), Francesca Cagnacci (Fondazione Edmund Mach e  National Biodiversity Future Centre), Stefano Grignolio (università di Ferrara), Maurizio Ramanzin (università di Padova), ha analizzato i dati di un tracciamento su vasta  scala di 1585 esemplari di 42 specie che erano stati dotati di collari GPS e ne è venuto fuori lo studio “Mammals show faster recovery from capture and tagging in human-disturbed landscapes”, pubblicato su Nature Communications, secondo il quale  «Se vivono in aree con un’impronta umana elevata, Gli animali selvatici sono meno suscettibili ai disturbi umani».

I risultati  della ricerca evidenziano che «Gli individui dotati di dispositivi di misurazione come i collari GPS si riprendono più rapidamente dall’evento di marcatura se incontrano più frequentemente esseri umani o tracce umane nel loro habitat. Sembrano già essere adattati a tali disturbi».

Stiegler spiega che «Per un periodo di 20 giorni dopo il rilascio, abbiamo analizzato quanto fossero attivi gli animali e quali distanze coprissero, per vedere quanto gli animali si discostassero dal loro comportamento normale e quanto tempo impiegassero a riprendersi dal disturbo».

30 delle 42 specie studiate hanno cambiato significativamente il loro comportamento nei primi giorni dopo il rilascio, sebbene vi fossero differenze evidenti tra le specie. Gli scienziati hanno notato che, a seconda che fossero erbivori, onnivori o carnivori, gli animali hanno reagito in modo diverso nei primi giorni dopo essere stati marcati: «Gli erbivori si sono spostati di più e hanno reagito con vari gradi di attività, mentre onnivori e carnivori erano inizialmente meno attivi e mobili».

Ad esempio, i predatori hanno percorso in media distanze più brevi dopo il rilascio, mentre la maggior parte degli erbivori ha percorso distanze più lunghe del normale. L’alce (63% più lontano della media a lungo termine) e l’eland (+ 52%) hanno avuto il maggiore aumento della distanza di spostamento, mentre i leopardi (- 65%) e i lupi (- 44%) hanno mostrato la diminuzione maggiore. In generale, onnivori e carnivori erano meno attivi nei primi giorni, mentre gli erbivori hanno mostrato sia tassi di attività aumentati che diminuiti. Tuttavia, i dati hanno anche rivelato che gli animali si sono “ripresi” a velocità diverse: tutte le specie sono sostanzialmente tornate al loro comportamento normale entro 4 – 7 giorni. Onnivori e carnivori sono tornati a un normale grado di attività e movimento entro 5 – 6  giorni, gli erbivori hanno mostrato un normale intervallo di movimento più rapidamente (da 4 a 5 giorni), ma sono tornati al loro solito grado di attività solo in una fase successiva (da 6 a 8 giorni). Inoltre, gli animali più grandi si sono ripresi più rapidamente di quelli più piccoli.

Stiegler conclude: «Tuttavia, è stato particolarmente degno di nota che gli animali il cui habitat è maggiormente influenzato dagli esseri umani sono stati i primi a tornare al comportamento normale. La nostra valutazione mostra chiaramente che i periodi in cui gli animali selvatici vengono monitorati dovrebbero essere più lunghi di una settimana per ottenere risultati significativi e per poter effettivamente studiare il loro comportamento naturale».

Il nuovo studio non spiega perché gli animali esposti all’uomo si siano ripresi più velocemente, ma gli autori indicano altre ricerche, come lo studio “Increased tolerance to humans among disturbed wildlife” pubblicato su Nature Communications nel novembre 2015,   che dimostrano che alcune specie animali possono sviluppare una tolleranza alla vita vicino alle persone, come i coyote e i procioni  che si sono dimostrati particolarmente ingegnosi nell’orientarsi nei territori  umani.

Commentando il nuovo studio su Anthropocene, il noto giornalista scientifico statunitense Warren Cornwall sottolinea che «I risultati di questa nuova ricerca potrebbero avere lezioni interessanti per altri studi che esaminano come anche una modesta presenza umana possa alterare il comportamento animale. In passato ho scritto di come anche i suoni di qualche escursionista loquace possano mandare nel panico gli animali selvatici  Ma gli scienziati che sono dietro quella ricerca si sono chiesti se forse gli animali si sarebbero calmati nel tempo con un’esposizione regolare a questi suoni. La nuova ricerca suggerisce che, almeno per alcune specie, potrebbe addirittura aiutarle a sopportare i maltrattamenti.

Tratto da del 10 Ottobre 2024