Tra i problemi che devono affrontare gli sforzi per rinverdire il mondo ci sono gli erbivori incontrollati. Secondo lo studio “Herbivory limits success of vegetation restoration globally”, pubblicato recentemente su Science da un team internazionale di ricercatori guidato da Changlin Xu della School of Life Sciences dell’università Fudan – Shanghai, queste specie, spesso trascurate durante i progetti di ripristino degli habitat, possono intaccare gravemente il processo di rivegetazione. Uno degli autori dello studio, Brian Silliman della Duke University, spiega su Anthropocene che «Nelle prime fasi (di un progetto di ripristino) queste piante sono come lecca-lecca, piccole prelibatezze irresistibili per i pascolatori».
Gli erbivori possono apportare una miriade di benefici ai territori. I bisonti possono migliorare la biodiversità vegetale nelle praterie del Midwest rasando l’erba dominante; quando mangiano arbusti invadenti il caribù e il bue muschiato aiutano a preservare le piante della tundra; sgranocchiando alberi meno ricchi di carbonio, gli elefanti aumentano lo stoccaggio del carbonio nelle foreste africane. Ma c’è anche l’atro lato della medaglia: il loro appetito, soprattutto se a danno di ecosistemi già danneggiati o rimasti senza predatori, può provocare il caos. Uno degli esempi più noti è quello dello Yellowstone National Park, quando le popolazioni di alci, rimaste senza predatori dopo lo sterminio dei lupi all’inizio del XX secolo, rasero al suolo cespugli e alberi lungo i corsi d’acqua.
Mentre associazioni ambientaliste, comunità locali e governi sono al lavoro per far rivivere gli ecosistemi devastati grazie a iniziative locali e globali come la Decade on Ecosystem Restoration dell’Onu, IL team di scienziati i provenienti da Asia, Europa, Americhe e Nuova Zelanda hanno esaminato a livello mondiale gli effetti che gli erbivori potrebbero avere su queste iniziative.
Sintetizzando studi terrestri e acquatici a livello globale (2594 test sperimentali da 610 articoli), I ricercatori hanno rivelato «Un sostanziale controllo degli erbivori sulla vegetazione in fase di ripristino. Gli erbivori nei siti di ripristino hanno ridotto l’abbondanza di vegetazione in modo più forte (dell’89%, in media) rispetto a quelli nei siti relativamente non degradati e hanno soppresso, piuttosto che favorito, la diversità vegetale. Questi effetti sono stati particolarmente pronunciati nelle regioni con temperature più elevate e precipitazioni inferiori. L’esclusione temporanea degli erbivori target o l’introduzione dei loro predatori ha migliorato il ripristino di entità simili o superiori a quelle ottenute gestendo la competizione o la facilitazione delle piante. Pertanto, la gestione degli erbivori è una strategia promettente per migliorare gli sforzi di ripristino della vegetazione».
Lo studio ha rivelato che «La presenza di erbivori in un progetto di ripristino era legata a una riduzione del 50% del numero di piante che vi crescevano e a un calo del 15% del numero di specie vegetali in luoghi come foreste e praterie». Un problema che si è presenta indipendentemente dall’ecosistema: nelle aree acquatiche e sulla terra, ai tropici e nelle regioni temperate, ma l’effetto degli erbivori sui progetti di ripristino è più pronunciato nei luoghi più caldi e asciutti dove le piante affrontano un ambiente di crescita particolarmente difficile.
I ricercatori evidenziano che «I risultati non contraddicono necessariamente la ricerca che esalta i benefici ecologici dei pascolatori. Mentre negli studi condotti su territori relativamente incontaminati la presenza di erbivori ha ridotto il numero totale di piante in media del 32%, in quei luoghi la diversità delle piante è aumentata del 14%».
Gli scienziati hanno scoperto che la differenza potrebbe essere in parte dovuta al fatto che la vegetazione nei siti degradati è generalmente meno produttiva rispetto a quelli sani, rendendo più facile per gli animali pascolarli eccessivamente.
Lo studio ha anche rivelato che le misure di controllo degli erbivori possono ridurre notevolmente i danni. Silliman fa notare che «L’introduzione di predatori per tenere sotto controllo le popolazioni di erbivori o l’installazione di barriere per tenerli a bada finché le piantagioni non diventano più stabili e meno vulnerabili, può aumentare la ricrescita delle piante in media dell’89%».
In luoghi selvaggi come Yellowstone, questo potrebbe significare il ritorno di carnivori come i lupi per ridurre la pressione del pascolo. Infatti, a Yellowstone dove i lupi sono stati reintrodotti negli anni ’90, gli arbusti lungo i corsi d’acqua sono ricomparsi in molte zone.
Dove la reintroduzione di grandi predatori non è possibile, chi si occupa del ripristino ecologico potrebbe dover ricorrere ad altri modi per impedire agli animali di masticare le nuove piante, come la recinzione di grandi aree. Su Anthropocene Warren Cornwall fa l’esempio del fiume Klamath, nel nord della California, dove è in corso la rimozione della diga più grande del mondo: «Gli scienziati stanno conducendo un’ambiziosa iniziativa per rinverdire i bacini idrici prosciugati che coprono quasi 1.000 ettari di terreno. I gruppi ambientalisti stanno aiutando pagando chilometri di recinzione attorno al terreno arido per tenere lontani bovini e cavalli selvatici che altrimenti potrebbero banchettare con centinaia di migliaia di nuove piantine».
Joshua Chenoweth, un ecologista restauratore della tribù Yurok della California settentrionale, che sta lavorando alla riforestazione e ha detto di considerare la recinzione fondamentale per il successo di quello che alcuni hanno descritto come uno dei più grandi progetti di ripristino di habitat del mondo: «Sarà un punto di svolta».